17° Intervista al M° Giuseppe Perlati
KARATE DO GENN/FEB/MAR 2011 NR 21
Oss M° Perlati,
vorrei provare a chiarire perchè non condivido quanto detto da Bruno De Michelis
nell'intervista a proposito delle "arti marziali" (tout court).
Dice De Michelis: "Non ero e non sono convinto che le arti marziali siano un sistema
integrato: l'aspetto fisico e tecnico è molto curato, non altrettanto quello spirituale."
Va ribadito che De Michelis si occupa di sport professionistico, che è un'attività
finalizzata ad un risultato e ad uno spettacolo per paganti (cosa ci sia di "spirituale"
è tutto da scoprire).
Il karate (ma vale per tutte le arti marziali), non è uno sport ma una Via, un -Dō,
e non è mai stato insegnato per produrre dei kamikaze, tutt'altro.
Stabilito che non stiamo parlando di sport, che è la materia di De Michelis, ma
di una Via (Dō) che è un altro piano dialettico, vorrei provare a fare cadere, con
argomenti concreti, la sua affermazione circa le arti marziali quale sistema non
integrato partendo proprio dalle sue contradditorie affermazioni.
Dice De Michelis ricordando i compagni di pratica: "[...] Eravamo un gruppo legato
dalla tenacia, dalla lealtà, dalla voglia di lavorare e dalla sollecitudine per
il bene reciproco."
Ora, partendo anche solo da questa semplice base valoriale: "tenacia", "lealtà",
"voglia di lavorare", "sollecitudine per il bene reciproco", si può dire che ciascuna
di esse include o/e prelude alle altre, quindi sono integrate e questo grado di
integrazione tra sé e sé e tra sé e altro da sé può approfondirsi all'infinito.
Quindi, il karate, produce una personalità aperta all'infinito e la molteplicità
dei fenomeni che lo connotano.
E ancora, il karate non è nè risultato sportivo (contingente e temporale), nè spettacolo
per una platea pagante, spesso relata al "panem et circenses".
Il karate non vuole produrre spettatori ma attori della propria vita.
Per questo si dice "Karatedo no shugyo wa issho de aru", perchè la gamma di conoscenze
e realizzazioni che l'essere umano può integrare è infinita. Lo sport, e soprattutto
lo sport professionistico, è su un altro piano.
Nella Via, tutte le conoscenze sono presenti e integrate e va ben oltre qualsiasi
Sport e Psicologia dello Sport (per me di nessun interesse culturale).
Quindi, congratulazioni alla carriera agonistica e professionale di Bruno De Michelis,
ma il Dō è un'altra cosa.
Nello Zavattini
Caro Nello,
mi ha fatto piacere leggere la tua lettera dopo tanti anni che non ci sentiamo e
vediamo. Spero che tu stia bene e che le cose ti vadano altrettanto bene.
Veniamo alla lettera che hai scritto.
Il mio parere è che quanto sottolineato da Bruno De Michelis non deve essere sottovalutato.
Non credo di sbagliare interpretando il pensiero di Bruno leggendo ciò che ha voluto
dire, in questo modo: “fate attenzione perché non basta curare l’aspetto fisico
e tecnico per avere automaticamente dei risultati a livello filosofico e spirituale”.
Certamente la “tenacia”, la “lealtà” la “voglia di lavorare” e la “sollecitudine
per il bene reciproco”, sono fondamentali ma non bastano. Tu scrivi una frase
molto bella e ricca di significato: “il karate produce una personalità aperta all’infinito
ed alla molteplicità dei fenomeni che lo connotano”. Dovrebbe essere così ma
ti assicuro che non è automatico.
Per ottenere una personalità aperta occorre fare un lavoro su se stessi, sul proprio
ego, molto faticoso, profondo, costante e sotto la guida di un Maestro. Spesso
la pratica non corretta del karate causa l’effetto contrario ingigantendo il proprio
ego e producendo una personalità chiusa. Tra l’agonismo nel karate e l’arte
marziale non ci dovrebbe essere contrapposizione ma il primo (l’agonismo) dovrebbe
essere la base di partenza, un periodo specifico delle propria vita, un test di
verifica del proprio livello, per poi approdare completamente nell’arte marziale
con tutti i suoi valori e proseguire approfondendo l’arte marziale per tutta la
vita. Occorre fare molta attenzione perché la nostra mente spesso ci porta
ad illuderci di essere sulla via giusta (DO) e le illusioni sono dei virus che contagiano
nel profondo. Tra l’altro la responsabilità del praticante di karate, ed in
particolare di un maestro, è molto maggiore di quella di un semplice “sportivo”
perché quest’ultimo non si pone come obiettivo la conoscenza di se stesso ma il
semplice risultato “contingente e temporale” come scrivi tu. Potrebbe succedere
anche che lo “sportivo” ottenga dei risultati psicologici e spirituali maggiori
di un praticante di karate superficiale e senza guida. Anche nella fase dell’agonismo
si può cadere nell’illusione dando troppa importanza al risultato della gara anziché
all’allenamento effettuato per ottenere quel risultato. Infatti, spesso, il
“regolamento di gara” condiziona la preparazione fuorviandola dall’obiettivo vero
del karate. Ti faccio un esempio per cercare di chiarire il mio pensiero.
Nel 1977 a Tokyo Bruno De Michelis perse il primo incontro con Tanaka.
Successivamente, essendo previsto dal regolamento di gara, per la prima volta, il
cosidetto “ripescaggio”, Bruno fece una gara splendida battendolo tutti gli avversari
e si trovò in finale di nuovo contro Tanaka che nel frattempo aveva superato i suoi
contendenti. Poiché il regolamento prevedeva che il perdente di un incontro
non poteva gareggiare di nuovo con lo stesso atleta, a Tanaka venne assegnato il
1° posto a De Michelis il 2° posto. Ci furono molte polemiche, immediate e
successive, ma il “regolamento” era stato rispettato.
A quel tempo io ero uno dei pochi a sostenere che si trattava di una decisione giusta
perché così prevedeva il “regolamento”. Col passare degli anni, approfondendo
lo studio del karate, ho cambiato radicalmente il modo di vedere. Il karate
è irrazionale, come è irrazionale la vita e come lo è l’avversario (compreso se
stesso). In quel momento, nonostante la presenza di Grandi Maestri, nonostante
che la gara fosse organizzata dalla JKA, ciò che è prevalso è stato il “regolamento”
e, in ultima analisi, l’aspetto “sportivo”. Se qualcuno avesse avuto il coraggio
e la forza di “spezzare” il regolamento e fare incontrare di nuovo Tanaka e De Michelis
il karate Do sarebbe prevalso su tutto. Sono convinto che questa sia la ragione
di fondo che ha portato alla recente scissione tra la JKA Italia e la FIKTA ma non
sono così sicuro che, persino nella FIKTA, tutti i maestri abbiano come obiettivo
la formazione di futuri MAESTRI di karate e non solamente ottimi atleti. Quindi
ben venga l’osservazione di De Michelis perché ciascuno di noi deve confrontarsi
con se stesso e solo alla fine saprà se avrà seguito la strada giusta.
Cordiali saluti.
Giuseppe Perlati
Il karate della Fikta? Bello ed efficace, ma non tradizionale!
In questo articolo cercherò di dimostrare la mia tesi, largamente minoritaria e
certamente provocatoria (solo nel senso che mira a provocare un dibattito fecondo
e costruttivo) che il tipo di karate che si pratica nella mia federazione (Fikta)
non può in alcun modo definirsi “tradizionale”. Il dizionario della lingua italiana
Devoto-Oli, alla voce “tradizionale” riporta: “corrispondente a consuetudine tramandata
fino a costituirsi in regola abituale”. Per lo stesso dizionario, “tradizione” è
“il complesso delle memorie, notizie e testimonianze trasmesse da una generazione
all’altra” e “tradizionalista” è definito “chi nell’atteggiamento mentale e nel
comportamento sociale si uniforma al modo di vedere e agli usi trasmessi del passato”.
Quanto è possibile risalire nel tempo per individuare con certezza le “radici” del
karate? Io credo che dobbiamo fermarci alla fine del Settecento, sull’isola di Okinawa,
dove svolse il proprio insegnamento Kanga Sakugawa (del quale sono incerte le data
di nascita e di morte) e il suo allievo Sokon Matsumura (anche per lui l’anagrafe
è incerta, ma gli attribuisce una lunga vita che abbraccia gran parte del secolo
diciannovesimo). Più sicuri i dati sul capostipite del Goju-ryu Higaonna, e sui
due insegnanti di Gichin Funakoshi: Anko Itosu (1831-1915) e Anko Asato (1828-1906).
Più indietro abbiamo solo leggende o ragionevoli indizi delle origini cinesi della
nostra disciplina.
Quanto assomiglia il karate della Fikta a quello che si praticava centocinquanta
anni fa a Okinawa? Pochissimo. Come si può dimostrare? Dalle rare fotografie dell’epoca
e dalle testimonianze dirette, prima fra tutte quella dello stesso Funakoshi. Il
karate di Okinawa si riassumeva nella ripetizione instancabile di pochi kata e nel
potenziamento delle tecniche col makiwara e altri attrezzi rudimentali. Questo almeno
fino al momento in cui, per iniziativa prima di Itosu e poi di Funakoshi, da disciplina
semi-segreta entrò a far parte del programma di educazione fisica delle scuole pubbliche
dell’isola.
Per dichiarazione unanime dei nostri maestri (ricordo soprattutto quella di Kase),
la prima rivoluzione all’interno del nostro stile (denominato Shotokan dalla palestra
che gli allievi donarono al M° Funakoshi) avvenne dopo il suo trasferimento in Giappone
e per iniziativa del figlio terzogenito di Gichin. Yoshitaka (1906-1945), nel corso
della sua breve ma significativa carriera di maestro, abbassò le posizioni, introdusse
nuovi kata ispirandosi alle forme di altri stili e rese il nostro karate assai simile
a quello che Nakayama (istruttore capo dopo la morte del caposcuola) avrebbe diffuso
in tutto il mondo negli anni 60. Se si analizzano tutti i nostri kata (i “libri
sacri” dello stile) si nota che la tradizione più antica, in essi condensata, ignora
ancora molte tecniche introdotte successivamente, tra le quali quasi tutti i calci
tranne il maegeri. Lo yokogeri kebanashi (antenato del keage e del kekomi) è ignorato
nelle versioni più antiche dei Pinan e del Kushanku, dove è sostituito dal maegeri.
Anche kokutsudachi dev’essere un’altra invenzione di Yoshitaka Funakoshi, dato che
gli altri stili utilizzano nekoashidachi. Nuovi anche il kibadachi profondo caratteristico
dello shotokan, e l’enfasi sulla torsione delle anche e sul caricamento alto del
ginocchio nell’esecuzione dei calci.
Dunque già lo Shotokan JKA non può più definirsi tradizionale, ed a maggior ragione
se il termine si intende non solo nel senso di “antico”, ma, come vogliono i più,
in contrapposizione a “sportivo” o “agonistico”. Fu infatti proprio la JKA a organizzare
le prime gare di combattimento libero (che sembra non piacesse molto al maestro
Funakoshi) e il primo campionato del Giappone di kata e kumite individuale e a squadre
nel 1957 (celebre in quell’occasione la vittoria di Kanazawa con un polso fratturato).
Poco dopo (1970) per iniziativa del francese Jacques Delcourt, nacque la WUKO (World
Union of Karate Organizations), e ai campionati mondiali di Parigi del 1972, giudicando
fazioso e inaffidabile l’arbitraggio, Nakayama ritirò la squadra giapponese, sancendo
così la frattura tra la JKA e la neonata organizzazione mondiale. Due anni dopo,
per iniziativa del M° Nishiyama, uno dei suoi più prestigiosi collaboratori e pioniere
del karate negli Stati Uniti, sorse un’organizzazione mondiale concorrente, la IAKF,
a prevalenza Shotokan. Fu allora che si iniziò a parlare di una contrapposizione
di principio tra due modi diversi di intendere il karate:
“La vittoria in se stessa non è il principale obiettivo del
karate. Il karate è un’arte di difesa personale che utilizza solamente il corpo
umano in un modo molto efficace, con combinazioni di bloccaggio, colpi, parate e
movimenti. Un torneo di karate sotto le regole della Iakf deve rispondere a questa
definizione di karate”. (Articolo dello statuto della costituzione della Iakf, 1974).
Che la contrapposizione tra “sportivo” e “tradizionale” fosse già allora soprattutto
“politica” e funzionale al riconoscimento da parte del Comitato Olimpico Internazionale,
è evidente anche ripercorrendo la più breve storia del karate italiano. Quando il
Maestro Shirai, in Italia dal 1965, sciolse l’A.I.K. e fondò nel 1970 una nuova
organizzazione, non ebbe alcuna esitazione a chiamarla Federazione Sportiva Italiana
Karate (Fesika). Allora nessuno parlava di “karate tradizionale”, mentre l’accento
cadeva soprattutto sull’efficacia del nostro modo di praticare. Chissà come l’avrebbe
presa il maestro Nishiyama se qualcuno gli avesse tradotto quest’articolo del professor
Niveo Luridiana, presidente della Commissione Medica della Fesika:
“Il karate marziale è pura violenza; presuppone sentimenti di odio verso un antagonista
che è nemico; persegue il danno e soprattutto l’eliminazione dell’avversario: allo
scopo applica tecniche di attacco incontrollato alle parti vulnerabili dell’organismo.
Il karate sportivo, che si identifica essenzialmente nello stile Shotokan, si propone
di superare compagni di uno stesso ideale sportivo (…) La Fesika è oggi in grado
di proporre il karate “Shotokan” come uno sport per tutti…” Se perciò il
nostro karate non era (e non era definito da nessuno) tradizionale alla vigilia
della fusione con la Fik (1978), non lo è certo diventato nel difficile decennio
di coabitazione, nel quale anzi molte delle nostre palestre, attratte dall’agonismo
e lanciate alla ricerca del punto in gara, hanno perso di vista i fondamentali e
lo spirito originario. La nascita ufficiale del termine tradizionale risale infatti
al 1985, anno del riconoscimento ufficiale da parte del CIO della WUKO come organizzazione
più rappresentativa del karate mondiale.
In quell’estate cambia anche la strategia del Maestro Nishiyama: fallito il tentativo
di sconfiggere la WUKO, egli decide di giocare la carta alternativa del riconoscimento
contemporaneo e parallelo di due diversi modi di intendere il karate. Cambia nome
alla propria federazione ribattezzandola International Traditional Karate Federation
(ITKF) e apporta radicali modifiche all’insegnamento dei kata e del kumite. Introduce
inoltre nuove forme di competizione: è la seconda rivoluzione all’interno del nostro
stile, che Nishiyama e i suoi allievi diffondono in tutto il mondo.
La Itkf insiste sull’aspetto “tradizionale” e sulla pratica del dojo, sottolineando
che il fondamento del karate sta in un concetto ispirato dal budo, quello di todome
o finishing blow (tecnica definitiva). Questa distinzione, secondo Nishiyama, non
era necessaria nell’epoca pionieristica del karate in Giappone, poiché tecnica e
intenti erano chiari per tutti. Con la diffusione mondiale della disciplina e il
conseguente livellamento della tecnica verso il basso, a causa di influenze e interpretazioni
non rigorose, occorreva riformularne i requisiti e ridefinirne i principi.
Il maestro Nishiyama affermava che negli Stati Uniti e nel mondo molte discipline
venivano definite karate senza esserlo realmente. Per questo, per ricondurre alla
sua matrice originaria il karate che gli era stato trasmesso, si vedeva obbligato
a identificarlo chiaramente, differenziandolo dalle altre espressioni. Lo chiamò
karate tradizionale, sottolineando la continuità con la via del maestro Funakoshi.
A partire da metà degli anni 80, con i suoi stage in tutto il mondo, Nishiyama è
diventato la fonte di una sua personale elaborazione del karate, fatta di tradizione,
spiritualità, tecnica e, in buona parte, agonismo, che si è affermata anche in Italia
grazie all’opera del maestro Shirai, suo collaboratore e dirigente ITKF ai più alti
livelli. Il regolamento di gara è complesso, forse un po’ macchinoso e di comprensione
non immediata per il pubblico. Si ispira alla tradizione del budo giapponese, con
i bunkai per i kata da applicare in gara, l’Embu, il Fukugo, un kumite libero nel
quale l’assegnazione del punto presuppone la perfezione della tecnica. La Wuko (poi
WKF) afferma subito che tutto questo non è compatibile con lo sport, ma negli anni
2000 inserirà, oltre al kata inventato, anche il bunkai nella competizione di kata.
Questo è dunque il karate che noi pratichiamo oggi nella nostra organizzazione:
lontano dalla tradizione di Okinawa, molto diverso da quello di Funakoshi, significativamente
dissimile da quello della Jka. Un karate corretto dal punto di vista biomeccanico,
tecnicamente ineccepibile, esteticamente bello ed efficace nella ricerca del todome:
ma indubbiamente un karate nuovo, caratterizzato anche e soprattutto da un nuovo
modo di intendere le gare e l’agonismo. Nuovi e in continua evoluzione sono anche
i bunkai, frutto degli ultimi vent’anni di studio del Maestro Shirai, nei quali
allo studio dell’uso del corpo e degli spostamenti negli stili più antichi si affianca
l’introduzione di combinazioni moderne come kizamizuki gyakuzuki, estrapolate dalla
pratica del kumite.di Sergio Roedner
Caro Sergio,
raccolgo volentieri la tua provocazione perché mi da modo di chiarire, anche a me
stesso, alcuni punti.
Come premessa ti racconto una breve storia.
Tre clienti che hanno prenotato presso un ristorante pagano il conto di 30,00 €
ma si lamentano del prezzo con il cameriere. Il cameriere fa presente la cosa al
proprietario il quale consegna al cameriere 5,00 € da restituire ai clienti. Il
cameriere pensa che sarebbe stato difficile dividere 5,00 € per tre persone quindi
si intasca 2,00 € e consegna 3,00 € ai clienti. In pratica ognuno di loro ha pagato
9,00 € (10,00 € – 1,00 €) e 2,00 € li ha trattenuti il cameriere. Moltiplicando
9,00 € X3=27,00 € e aggiungendo i 2,00 € del cameriere diventano 29,00 € ma non
erano 30,00 €?
Voglio dire che nel descrivere gli avvenimenti occorre fare attenzione a non mescolare
le cose altrimenti il risultato non è corretto.
Spesso si parla di “sport” intendendo “agonismo” e viceversa. Si parla di “kumite”
senza specificare se si tratta di “kumite di gara” (kumite shiai) o di “Jiyu kumite”
(combattimento libero), di “tattica” confondendola con la “strategia”. Di “regole
di gara”, scaturite da una strategia politica, come metodologia di allenamento e
scopo del karate. Infine di “tradizione” intendo le tecniche anziché i “principi”.
Anche la “Carta Europea dello Sport” parla di “principi” ai quali devono attenersi
gli sportivi, evitando scrupolosamente di entrare nel merito delle tecniche: questi
“principi” sono la “tradizione” dello sport. Può darsi che il termine “tradizionale”
non sia il più appropriato ma l’intento è quello di distinguere tra due modi di
concepire il karate oggi.
Da una parte chi lo vede esclusivamente come uno sport collegato ad una espressione
agonistica (“contingente e temporale” come afferma Zavattini nella sua lettera)
che condiziona la pratica ad un regolamento di gara e, dall’altra parte, chi pratica
uno sport nel quale la parte agonistica non è fine a se stessa ma parallela e complementare
al karate inteso come arte marziale.
Come vogliamo chiamarli?
A mio parere il primo non si dovrebbe chiamare karate ma “sport di combattimento”
e solamente il secondo “karate” ma il mio parere conta poco. Sicuramente non si
è inteso collegare il termine “tradizionale” semplicemente alle tecniche ma ai “principi”
dai quali discendono le metodologie e le tecniche. È ovvio che il karate cosidetto
“tradizionale” praticato oggi non è uguale al quello praticato nei secoli scorsi,
cosi come diverso sarà quello che si praticherà tra 20, 50 anni.
Io la chiamo “evoluzione nella tradizione” perché lo studio che hanno fatto i Grandi
Maestri del ‘900, e che prosegue tutt’oggi, sull’immenso bagaglio tecnico che ci
è stato tramandato, richiede un continuo lavoro sulla sua interpretazione. Per esempio,
i kata, che sono un mezzo di trasmissione di “principi” e non solamente di tecniche,
occorre praticarli per “intuire” ciò che racchiudono.
Questo lavoro non avrà mai fine, e sarà compito nostro e dei nostri allievi continuarlo,
ma non dovrà intaccare il concetto “tradizionale” che il karate è un metodo di autodifesa,
che le tecniche sono un mezzo e non il fine, che la pratica deve portare al Karate-Do
ed infine alla intuizione del significato di “KU”.
Tradizionale è ciò che ha più volte affermato il Maestro Kase:
Non è karate se non c’è kime
L’unico “stile” è: forte e veloce
Il karate non è razionale
L’obiettivo è la quarta dimensione, il sesto senso
Tradizionale è il “Dojo Kun” che cerchiamo di comprendere e di applicare ogni giorno.
Comunque anche le tecniche possono essere più vicine o più lontane dalla tradizione.
Rifaccio un esempio col quale, da quasi 30 anni, cerco rendere evidente la differenza
tra “moderno” e “tradizionale”.
La lancia era usata per catturare una preda o per difendersi da un avversario. Oggi
il lancio del giavellotto è un gesto atletico che prevede esclusivamente una sfida
tra chi lancia più lontano lo strumento. Se venisse codificata una competizione
che prevedesse di fare centro ad una determinata distanza sarebbe sempre un gesto
atletico ma molto più vicino all’azione che veniva compiuta in origine. Il tiro
con l’arco ne è la conferma.
Possono variare le tecniche, lo strumento, la distanza del bersaglio ma l’obiettivo
è sempre lo stesso: fare centro. Così è per il “todome” del karate.
Siccome io scrivo per imparare a scrivere ma non riesco ancora ad essere semplice
e chiaro, ho predisposto uno schema che spero sia di aiuto per una maggiore comprensione
di ciò che voglio dire. Concludo dicendo che anche questa volta non sono d’accordo
sul titolo. Secondo me dovrebbe essere:
Il karate della FIKTA? Bello ed efficace, quindi TRADIZIONALE!
Cordialmente.
Giuseppe Perlati